“Grazie perché con voi ho potuto fare Pasqua”: con queste parole Chiara, una delle ragazze che ha partecipato al Triduo pasquale nel carcere di San Vittore esprime gratitudine per un’esperienza che anche gli altri partecipanti hanno definito “intensa”, “profonda”, “indimenticabile”.
Accompagnati dalle Suore della Carità, un gruppo di giovani provenienti da diverse parti d’Italia ha scelto di vivere la Settimana Santa mettendosi a servizio per animare le liturgie all’interno del carcere di San Vittore a Milano, dal Giovedì al Sabato Santo 2025.

“Perché decidere di vivere il Triduo in carcere?”
“Perché in quegli abbracci – racconta Caterina – in quei sorrisi spontanei, in quegli sguardi, in quei gesti, in quelle parole condivise riesci ad incontrare il Signore. Perché non hai timore o imbarazzo di lasciarti lavare i piedi. Perché con gli sguardi, gli abbracci, i saluti, le strette di mano delle detenute durante la messa ti dimentichi di essere all’interno di un carcere e ti sembra di essere a una bellissima celebrazione in una qualsiasi parrocchia, una di quelle che è spontanea, forse un po’ caotica, che sembra una festa e che ti fa emozionare forse senza neanche capire bene il perché. Perché nel cantare a squarciagola tutti insieme per le strade di Milano o durante la cena non temi note stonate, ma provi solo un senso di felicità pura”.
Durante le giornate, i giovani hanno pregato, fatto adorazione notturna, organizzato un’originale Via Crucis – “è durata più di tutte le processioni a cui io abbia mai partecipato, ma il tempo è volato”, ha commentato Antonio–, e condiviso la quotidianità con le suore.


Ricevere semi da far germogliare
Un’esperienza che ha lasciato tracce indelebili: “In questi giorni c’è chi ha ricevuto risposte, c’è chi ha ricevuto domande; c’è chi ha ricevuto pace e c’è chi ha ricevuto silenzio. Ognuno, come un semino, ha ricevuto qualcosa. Ora, come sospinti da un vento che soffia, torniamo ognuno alla sua quotidianità, ma con un dono in più da far germogliare lì dove siamo”, ha precisato Paolo.
Non è mancato lo stupore per la fraternità nata in pochi giorni: “Quelle persone conosciute da pochissimo sembrano amici di una vita. Subito vuoi loro bene, come se gliene volessi da sempre. Ti senti accolto, ascoltato, portato sulle spalle”. Una comunità improvvisata, eppure profondamente unita. “Vi siete fatti mani di Cristo, occhi suoi, carezze, silenzi profumati del Suo amore”.


In carcere, lo sguardo è una medicina
Alcuni hanno raccontato il carcere come luogo di sguardi: “Ho iniziato a percepirlo come un luogo di sguardi indipendenti dalle norme, privi di filtri. Sguardi che ricordano volti cari, storie vissute o mancate. Se quegli sguardi riportano qualcosa di familiare, diventano una medicina contro l’indifferenza”.
Il Venerdì Santo con i detenuti
Il Venerdì Santo è stato il punto più profondo di questa immersione nel mistero pasquale. “Non sono corsa da sola al sepolcro”, scrive una ragazza. “Perché come angeli mi avete annunciato la gioia vera, che attraversa il dolore, squarcia il buio come un raggio di luce”.
Una gioia che, pur sbocciata nel silenzio del carcere, continua a risuonare: “Abbiamo le orecchie e il cuore pieni di melodie e parole, gli occhi pieni di gesti appena vissuti. L’unica cosa che possiamo fare è condividerla, perché una gioia così grande non può restare solo nostra”.
Il profumo di Cristo
Fratelli, sorelle, amici. Così ci siamo sono sentiti, così ci siamo chiamati. E così siamo tornati a casa, diversi: come il nardo con cui sono stati unti i nostri polsi, “ora profumiamo di Lui”.
